martedì 17 gennaio 2012

I giovani sono i nuovi schiavi

Uno su tre è disoccupato, gli altri due lavorano senza previdenza, senza diritti, in imprese con tassi di mortalità elevatissimi e costrette a una competizione pazzesca. Mentre sono del tutto ignorati dalla politica. E' a loro, oggi, che bisogna guardare

Sulle trasformazioni dell'organizzazione e della composizione del lavoro e sulla fine dell'epoca "fordista" circolano da decenni biblioteche di studi, che più o meno ormai si ripetono, usque ad nauseam. Non occorre essere esperti per capire che l'eroico tempo della grande concentrazione operaia e industriale, dei grandi conflitti tra capitale e lavoro, è tramontata per sempre. almeno da noi (risorgerà, chissà in quali forme, in India, in Cina?): basta avere occhi e girare per le nostre metropoli.

Quel tempo è diventato archeologia. Ma l'inerzia delle organizzazioni sindacali e politiche è pari soltanto a quella delle nostre lingue: le loro strategie mutano con fatica e lentezza anche maggiori. Tutto l'attuale dibattito in materia di occupazione e diritti del lavoro ha l'aria di un nostalgico revival tra vecchie destre e vecchie sinistre. Forse che gli articoli 18 hanno impedito licenziamenti di massa in questi anni, o possono frenare, non dico arrestare, i mutamenti del processo produttivo, della composizione dell'occupazione, la delocalizzazione? E, altra faccia della stessa medaglia fuori corso, le apologie più o meno mascherate su flessibilità, mobilità, ecc. Forse che è sufficiente la disponibilità sindacale su tali materie perché si decida di investire? Come se tale disponibilità non si manifestasse già, piena, a volte anche troppo, nella realtà dei rapporti di lavoro. Forse che investire, oggi, significa automaticamente aumentare la domanda di lavoro?

E mentre ci si balocca a difendere trincee sulle quali il "nemico" è già passato coi carri armati, tutta una generazione aspetta di essere riconosciuta nei suoi nuovi, specifici problemi e, magari, di organizzarsi. Come lavora quel 60 per cento di giovani "fortunati" che un lavoro ce l'hanno? Inventandoselo, nella maggior parte dei casi. Lavoro nelle maglie della piccola o piccolissima impresa; lavoro autonomo di servizio, anche ad alta intensità di "conoscenza"; free lance di ogni tipo. Quel poco di occupazione che si crea, si crea fuori o ai margini dei settori tradizionali. Vuol dire più autonomia e "libertà"? Non scherziamo.

Nella maggioranza dei casi, queste nuove imprese, di dimensioni quasi individuali, senza alcun sostegno finanziario, con tassi di mortalità elevatissimi, erogano un lavoro ancor più dipendente di quello salariato di una volta. Non solo perché "servono" a imprese pubbliche o private più strutturate e politicamente e sindacalmente più influenti, non solo perché ne sono in larga misura l'effetto del processo di "esternalizzazione", ma perché costrette a una competizione "mortale" tra loro per ottenere commesse, che si vedono poi pagate con ritardi insostenibili. Mille volte peggio che precari! E ciò che fa schifo è appunto questo: che il lavoro giovane, che aspira certamente a essere autonomo, che è certamente più ricco culturalmente di quello antico, debba pregare per farsi riconoscere, per potersi sviluppare. Che il futuro, bello o brutto che sia, debba stare al servizio del passato: questo condanna un paese, una nazione, una civiltà.

Quanti giovani lavorano "dispersi" in questa galassia? Senza alcun sostegno dal sistema bancario, ignorati dalla cosiddetta politica. Senza garanzia previdenziale. Con sussidi di disoccupazione, tra un periodo di lavoro e l'altro, che sono i più bassi di Europa. E non certo di semplici "ammortizzatori" vi sarebbe bisogno ma di una politica del lavoro capace di strutturare queste nuove forme di impresa, di puntare sulla loro crescita. O pensiamo di poter aumentare l'occupazione nel lavoro pubblico dipendente a tempo indeterminato? Una politica attiva del lavoro è oggi pensabile soltanto come tutela, sostegno strategico, organizzazione sindacale delle nuove professionalità che, al di là dei vecchi ordini e del loro decrepito corporativismo, si vanno formando nella "rete" dei servizi alle imprese globali, nell'informazione, nella cultura (patrimoni artistici, paesaggistici, turismo). Sarebbe ora di metter mano all'aratro e cessare di volgere indietro lo sguardo.

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